I colori che indossa Julen Bernaola, a distanza di quattro anni dall'ultima volta, sono sempre gli stessi: rojiblancos. Li porta addosso da quando era appena adolescente. Ci è cresciuto, ha sognato e vinto al fianco di campioni come Nico Williams, Oihan Sancet e Unai Simón. Non rappresentano però quelli della sua Bilbao, ma di Barletta. Una città che, a ben vedere, non è poi così distante dalla cultura basca. Anzi, anche qui l’identità è forte e radicata. Basti pensare alla Disfida o all’attaccamento viscerale per la propria squadra.
Ci ha raccontato di quando ha pensato di lasciare il calcio dopo un grave infortunio al ginocchio, ma ha deciso di continuare e venire in Italia, passando per l'Andorra. Esperienze che gli hanno permesso di ritrovare la cosa più importante: sé stesso. È tornato in forma, ha vinto con Ugento e Barletta, e la stagione non è ancora finita. A soli due giorni dalla finale di Coppa Italia Dilettanti, Julen Bernaola si è raccontato in esclusiva ai microfoni di Tuttocalciopuglia.
Dove tutto ha inizio
L’Euskal Herria, la terra del popolo basco, è una regione che trasuda passione, orgoglio e amore per lo sport. E Julen, fin da bambino, ha scelto il calcio: “I miei genitori, mio nonno e mio fratello hanno sempre praticato questo sport. Anche a Bilbao c'è una grande passione, come in tutto il mondo. Già a due anni portavo la palla sempre con me. Ho iniziato a giocare seriamente a sei o sette anni, come tanti bambini: a scuola, con gli amici. Ho fatto un paio d’anni di calcio a cinque, poi sono passato subito a una società più grande dove ho iniziato col calcio a undici".
Famiglia chiamata Athletic
L’adolescente Bernaola cresce, e con lui crescono anche le sue qualità calcistiche. Tanto da essere notato da uno dei club più affascinanti d’Europa: “Bilbao è una città piccola e per questo punta molto sul vivaio. L’Athletic seleziona solo calciatori nati o cresciuti nei Paesi Baschi: ci credono davvero tanto e lavorano molto sul settore giovanile. Io ci sono arrivato intorno ai quattordici anni e ci sono rimasto per circa nove anni".
Ma il calcio non è solo tecnica e tattica. A rincorrere quel pallone ci sono persone, legami, rapporti che durano nel tempo. E a Bilbao, l’Athletic è qualcosa di più: “Se dovessi descrivere l’Athletic con una sola parola, direi ‘famiglia’. È bello, perché inizi con ragazzi di tredici anni e l’80-90% di loro fa l’intero percorso con te. Diventano parte della tua vita. Passi cinque giorni a settimana insieme, due-tre ore al giorno: diventa davvero una famiglia. Sono stato fortunato a crescere lì".
“Con la prima squadra ho condiviso il campo con quasi tutti, almeno il 90%”, racconta. Ma tra tutti, uno in particolare ha lasciato il segno già al primo allenamento: Nico Williams, oggi stella dei Leones e della Nazionale spagnola. “Ricordo in particolare Nico, con cui ho condiviso un anno e mezzo: già dal primo allenamento si capiva che era un fenomeno. Ne parlavano tutti bene. Ha tre anni meno di me, lo portarono gradualmente ad allenarsi con noi. Ci siamo sentiti anche dopo la vittoria all’Europeo: abbiamo passato un po’ di tempo insieme in estate. È davvero un bravo ragazzo".
Poi, un giorno che sembrava come gli altri si trasformò in uno di quelli che non dimenticherà più: “Mi allenavo con la prima squadra da almeno due mesi. Una mattina ero ancora a letto, erano le sei, e mi hanno chiamato: Iñigo Martínez, oggi al Barcellona, aveva un problema allo stomaco. Mi hanno detto di vestirmi subito e prendere l’aereo per Siviglia, per la sfida contro il Betis. Non ho giocato, ma per me è stato come vincere la Champions League. Un sogno che avevo fin da bambino, con la mia famiglia. È stato bellissimo".
Avere dei punti di riferimento è fondamentale per crescere e migliorarsi. Julen ne ha avuto uno in particolare: il simbolo dell’Athletic, il suo capitano: "Ci sono stati tanti giocatori da cui ho cercato di imparare qualcosa, ma se devo nominare un’icona, dico Iker Muniain. È stato il nostro capitano e ho avuto un grande rapporto con lui. Mi ha sempre dato una mano, è un grande calciatore ma, soprattutto, una grande persona".
Sogni da Nazionale
Durante gli anni in Spagna, Julen ha avuto il privilegio di indossare la maglia della sua Nazione. Un sogno che prendeva vita accanto a compagni diventati poi stelle del calcio mondiale, come Iñaki Peña, Fran García e Brahim Diaz. In panchina, un volto familiare: Luis de la Fuente, oggi alla guida della Spagna: "Con Luis de la Fuente avevo già rapporto, anche lui è di Bilbao. Con la Spagna ho fatto U16, U17 e U18. L’ho ritrovato nell’ultimo anno, ma già ci conoscevamo da prima. Per me era tutto più facile rispetto ad altri. Si vedeva già allora che avrebbe fatto tanta strada. Allenarsi ogni giorno con giocatori come Brahim Diaz, che era già un fenomeno, era un altro mondo. Vederlo giocare era uno spettacolo. Io andavo agli allenamenti e mi chiedevo cosa ci facessi lì: loro andavano a duemila all’ora. Erano fenomeni, un passo avanti a tutti".
L'infortunio che cambia tutto
Ma anche le favole più belle hanno una fine. E a volte, dire addio è necessario: "La mia ultima partita con l’Athletic è stata la finale playoff di Serie C per salire in B, persa al 108'. Mi è dispiaciuto tanto andarmene: volevo giocare in prima squadra. Ma resto felice, perché ho vissuto tanti anni nella squadra che amavo da bambino. Ogni allenamento per me era un regalo. Alla fine, però, sono andato via".
Julen, però, non poteva certo fermarsi lì. A ventidue anni, aveva ancora tutto da scrivere: "Dopo il Bilbao, sono andato al Racing Santander in Serie C, dove abbiamo vinto il campionato". Ma alla quinta giornata, il destino ha deciso di metterlo alla prova: rottura del legamento crociato. "Sono stato fermo due anni. Poi ho scelto l’Atlètic Club d’Escaldes, in Andorra – un po’ come San Marino in Italia – per ritrovare il ritmo. È stata un’esperienza bellissima, abbiamo vinto il campionato. Era bellissimo, ma difficile: dopo due anni di stop, ero arrivato a quasi 100 kg. Rispetto a Spagna e Italia, il livello lì è più basso, ma si gioca comunque un buon calcio".
L’Italia e la rinascita
Julen Bernaola, dopo l’infortunio, è stato lontano dai riflettori, dai ritmi del professionismo, dai sogni: "Dopo due anni di inattività, ero lontano dai ritmi della Serie C e D. Sono arrivato in Italia grazie a un calciatore che mi aveva visto giocare in Andorra, aveva giocato in Serie D e in Eccellenza. Mi ha chiesto se volessi provare. Non avendo grandi offerte in Spagna, ho accettato. Grazie a Dio, l’anno scorso abbiamo vinto il campionato. Sto benissimo qui e spero di fare una lunga carriera".
Le storie più belle iniziano spesso da un no: "All’inizio avevo provato con il Manduria, ma l’allenatore non mi voleva: ero fuori forma. Ho fatto solo una settimana. Poi il mio procuratore mi ha proposto di provare con l’Ugento: mi sono giocato le mie carte. Per fortuna ho incontrato un grande allenatore come Mimmo Oliva, che mi ha dato fiducia dal primo giorno. Mi ha concesso tempo per rimettermi in forma e lo ringrazierò sempre. Come lui, anche la società: mi hanno dato tutto. Senza di loro forse avrei smesso di giocare".
E se deve scegliere un ricordo da tenersi stretto, va con il cuore: "Uno dei momenti che ricordo con più emozione è la vittoria del campionato con l’Ugento, dopo tutto quello che ho passato. Stavo per ritirarmi, ero stato fermo due anni. Sulla carta eravamo una squadra che doveva salvarsi. Anche l’aver giocato con la prima squadra dell’Athletic è un ricordo indelebile".
Barletta come nuova casa
In estate accetta l'offerta della Sambenedettese, in Serie D, ma qualcosa non va: "Nello spogliatoio non mi trovavo benissimo, e anche il modulo non era facile da interpretare per me. Faccio comunque i complimenti a loro per aver vinto il campionato: sono felicissimo. Poi è arrivata l’opportunità del Barletta: ho parlato con la società e mi hanno lasciato andare".
Barletta non è Bilbao, ma ci somiglia. Nell’amore viscerale per i propri colori, nella passione che si respira tra le strade e negli occhi della gente. "Indossare la maglia del Barletta è un orgoglio. C'è una voglia di calcio incredibile, la senti in ogni persona. Ti viene voglia di allenarti ogni giorno. Sono felice della scelta fatta. Abbiamo vinto il campionato, ma ora vogliamo la finale: vogliamo andare a Teramo per vincerla. Speriamo di raggiungere il professionismo il prima possibile, perché è ciò che questa piazza si merita. Ho firmato per due anni e vorrei restare: mi trovo benissimo con lo spogliatoio, con la società e con la tifoseria. Se dipendesse da me, non me ne andrei".
Il sogno
I sogni, a volte, cambiano forma. Ma non smettono di essere una costante: "Il mio sogno, fin da piccolo, era allenarmi ogni giorno con la maglia dell’Athletic. Ho vissuto un’esperienza con la prima squadra e ora voglio vincere ogni partita e, magari, arrivare nel calcio professionistico. Se succede con il Barletta, ancora meglio".
Sempre con il cuore
Non è un calciatore appariscente. Non ama le etichette: "Mi definisco un giocatore semplice, che cerca sempre di adattarsi alla squadra. Forse ho un’attitudine più difensiva, ma se ho voglia di prendere la palla, lo faccio. Penso di essere un giocatore intelligente".
Julen Bernaola non ha mai smesso di credere nel calcio, neanche quando sembrava voltargli le spalle. Ha inseguito la sua passione lungo sentieri impervi, perdendosi e ritrovandosi, fino a scoprire che a volte basta cambiare terra per sentirsi di nuovo a casa. E oggi, con i rojiblancos del Barletta addosso, ha ricominciato a sognare. Con la stessa fame, lo stesso cuore, lo stesso amore di sempre.
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